Diario del lettore

Che cosa significa leggere? Cosa ci spinge ai libri? Cosa proviamo quando leggiamo?  Non ci sono risposte giuste o sbagliate a queste domande, perché ognuno vive un rapporto diverso e unico con la lettura. In questa rubrica proveremo a raccontare le varie sfaccettature che caratterizzano l’esperienza di lettura, cercando di definire e mappare il tipo di sensazioni che suscita un buon libro.

di Carmela Fabbricatore

Lettore #7

Non troppo tempo fa, una mia cara amica mi ha chiesto di dare un piccolo contributo alla newsletter del suo progetto letterario (fuoripunto.), un lit blog su cui avevo curato fino a qualche mese prima una rubrica piuttosto atipica di consigli di lettura. In virtù del mio ruolo nel blog, avrei dovuto produrre un breve testo rispondente alla domanda Cosa significa per te leggere? Avevo a disposizione solo cinquecento battute, pochissime per una questione che all’epoca mi pareva immensa, quasi avesse a che fare con la mia intera esistenza. Solo in quel momento, leggendo cioè quella domanda in cima a un foglio bianco, prendevo consapevolezza sul come i libri avessero da sempre e silenziosamente scandito il mio ritmo di vita. Un ruolo ben più ampio di quello che generalmente gli si associa (ma che forse non rappresenta poi tanto una novità per chi fa propria la consuetudine del leggere). 

Ho vissuto la lettura come un atto del tutto naturale, egoistico e segreto fin dalla primissima infanzia. Comprendo ora quanto i libri siano stati importanti per superare quel disagio che provavo nell’ascoltare le risposte degli adulti – piene di limiti e poco convincenti – ai miei come e perché. La mia curiosità aveva bisogno di risorse più concrete a cui aggrapparsi, per configurare delle verità che fossero quanto più possibile vicine a quella che io intuivo dovesse essere la realtà delle cose. I libri sembravano soddisfare tale necessità, oltre che garantirmi uno spazio sicuro in cui divertirmi, e ingannare l’attesa dell’inizio* della vita. 

[*Tutto questo resta più che mai valido anche traslato sull’età adulta, e se provo a sostituire nella frase precedente la parola “inizio” con la parola “fine”, la portata dell’intero concetto mi pare oltremodo e involontariamente amplificata]

Forse è anche per questi motivi che ho imparato presto e con inusuale velocità a dissociare i libri dall’impiego tradizionale che osservavo a scuola, lento e sfasato rispetto a quello che nel frattempo ne facevo in autonomia. Ero, del resto, una lettrice molto avida: mi annoiavo facilmente alle elementari e spesso concludevo i compiti prima di tutti gli altri per avere il tempo di leggere i Piccoli Brividi di nascosto sotto al banco. Imploravo poi i miei genitori di comprarmi i libri da cui erano tratti i brani delle antologie delle scuole medie, solo per sapere come andava a finire (mi chiedevo, ad esempio, se Tom Sawyer avrebbe mai baciato Becky, o se Jim sarebbe uscito indenne dal barile delle mele, e se Paul e Susy si sarebbero mai incontrati al di fuori dei loro diari). Non ci volle poi molto a restare incagliata in quelle che all’inizio sembravano solo storie molto promettenti e finivano poi a farmi guardare il mondo con occhi diversi. Come successe quando lessi di quel tizio che tutti credevano morto, ma in realtà non lo era, e allora lui scappò via e cambiò nome in Adriano e la cosa all’inizio faceva un sacco ridere ma poi non più così tanto e, anzi, iniziai a sentire l’odore di quello che avrei poi imparato a conoscere con il nome di mal di vivere; oppure di quando mi imbattei in un ragazzino che  comprava  libri invece di quei krapfen descritti in modo così realistico e succulento, e desiderava ardentemente imparare la lingua in cui si erano innamorati i suoi genitori. È stato poi un attimo ritrovarsi quindicenne a imprecare contro un principe imbruttito che – di fatto – aveva costretto colei che nel frattempo era diventata una specie di mia amica a buttarsi sotto un treno, e a quel punto avevo già iniziato a imparare tutto a memoria, per paura che un giorno ci sarebbe davvero stato un corpo di Vigili del Fuoco incaricato di bruciare tutti i libri che avevo amato. Però poteva succedere anche di ritrovarsi a padroneggiare l’inglese scritto e parlato per puro caso, solo perché Harry Potter and the Order of the Phoenix era appena uscito in madrepatria e trovarlo in un angolo di una grande libreria con tanto di prezzo in sterline già convertito invogliava a non aspettare gli otto mesi che occorrevano all’uscita dell’edizione italiana unicamente, ancora una volta, per sapere come sarebbero andate le cose. Infine, dopo pomeriggi passati a piangere sul divano come una qualsiasi Franny in crisi post-adolescenziale, insoddisfatta e delusa da quella che presto sarebbe apparsa in tutta la sua insipidezza come la vita adulta, è stato assolutamente logico utilizzare Lo Straniero e tanti altri affini come dolcissimo surrogato di psicoterapia. I libri si erano definitivamente consacrati nella loro funzione di filtro, per destrutturare e ricomporre ogni cosa che non voleva trovare una sua quadra. 

Comunque, lasciando da parte ogni facile romanticizzazione, che sono certa avere in comune con lettrici e lettori di tutti i tempi (ed è bellissimo, quando poi alla fine ci si confronta su quali libri ci hanno reso le persone che siamo), dicevo, lasciando un attimo da parte tutto questo e tornando alla domanda iniziale del cosa significa per te leggere, non posso fare a meno di  ricordare, a questo punto, che c’è stato un momento intorno ai trent’anni in cui, dopo aver creduto di aver svolto a pieni voti i compiti della vita, ho dovuto scontrarmi con la perdita di tutto quanto di solido fondava la mia esistenza. Un lutto, un abbandono, un lavoro che non mi ha amato. Capita a tutti, prima o poi, di essere sopraffatti dal corso delle cose in un modo inspiegabile e senza appello, e ancora mi chiedo cosa sarebbe stato di me se non avessi avuto i libri a proteggermi da una serie di dolori inevitabili. Ero nel pieno di un grande malessere quando ho buttato giù la lista di tutte le letture incomplete o ancora da fare, quei libri che, da soli, avrebbero potuto riempire giorni che in quel momento mi parevano privi di qualsiasi significato. C’era tutto il tempo perduto di Proust, Moby Dick e i Karamazov, almeno tre quarti di Novecento e tantissimi contemporanei, ancora vivi, che avrei forse potuto anche conoscere di persona, o quantomeno iniziarci una corrispondenza. Mi sono detta più volte che fino a quando la mia lista dei libri letti non avesse raggiunto una lunghezza accettabile, forse valeva ancora la pena aggirarsi per il mondo. Ed è stato proprio mentre ero in balia di questi pensieri che alcuni spiriti del tempo letterario mi sono venuti in soccorso e mi hanno sorretta. Tondelli prima di tutti, con quelle Camere Separate che furono presagio di morte ma anche di sua esorcizzazione e cura, a cui poi seguì Bachmann e il suo Trentesimo Anno – che poi è stato anche il mio –  e ancora tanti recuperi forti e importanti: Conversazione in Sicilia, pietra angolare per una riconnessione con le radici, il Ricardo Reis di Saramago o i viaggi notturni tra gli spiriti di Tabucchi, la luce di Del Giudice, e anche una rilettura più lucida di Mansfield e Woolf.  Ultima e insieme prima Elsa Morante, che con le poesie di Alibi mi si è rivelata con intensità inaspettata, così lontana, umana e vera rispetto alla freddezza a cui la relega certa retorica da accademia.   

Questi erano i pensieri che mi passavano confusamente per la testa quando, finalmente, sono riuscita a mettere in forma la risposta per il blog della mia amica: 

«Ne L’Ultimo Lettore, Ricardo Piglia – riprendendo un discorso caro a Borges – dice che “la lettura è al contempo costruzione di un universo e un rifugio di fronte all’ostilità del mondo”. È una definizione che sento appartenermi. A detta di mia madre, ho imparato prima a leggere che a parlare. Che sia vero o meno, una cosa è certa: per me leggere è da sempre un atto di difesa, un modo per appropriarsi del senso della vita o, al contrario, affrontarne il non-senso. Un modo per stare al mondo.»

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