di Natalia Zambrano
Il nome Partenope, in riferimento alla città di Napoli, è ormai desueto. Eppure, i napoletani (e spesso anche i campani in generale) adorano definirsi partenopei; quasi come a non voler in nessun modo recidere quel legame atavico, sanguigno, con la propria genitrice. Definiscono la propria identità ricordandosi di essere tutti figli della stessa donna: Partenope.
Ma chi è Partenope? Non è facile ricostruirne la storia, perché quando credi di esserci arrivato, di poter parlare di questa figura mitologica, ti accorgi che non è possibile descriverla, incasellarla in una sola storia. E quindi decidi di raccontarle tutte, o meglio, di intrecciarle con la storia della città, affinché, così facendo, il mosaico sveli le sembianze di un volto. E così ho cercato di fare.
Pur essendo comune a molti miti, presentare versioni discordanti e postume, trovo singolare che in questo caso si tratti proprio del mito di fondazione della città di Napoli. E la cosa mi fa sorridere, sapete perché? Perché è da sempre che Napoli, ad occhi esterni così come a quelli dei suoi abitanti, sembra apparire con mille volti diversi; come se anche in questo caso, si cercasse di dare una definizione ad una città che da sempre ha rifiutato le etichette.
Napoli è una Città Stato, piena di ossimori e contraddizioni, in cui luce e tenebre si incontrano nelle sue strade, insinuandosi persino dentro le finestre, fino a raggiungere i cuori dei suoi figli. Il bene e il male, come il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato si incontrano e si scontrano ogni giorno a Napoli; come del resto accade in tutte le città del mondo, o sbaglio?
Il fatto strano però è che a Napoli questo scontro avviene dentro una cornice variopinta; è così che nasce la magia. Quel je ne sais pas quois che questa città trasmette, credo risieda proprio nella capacità, tutta napoletana, di trasformare qualsiasi cosa in arte: dalle caricature più esagerate e stravaganti alle immagini più delicate ed eleganti. Napoli è colore! Anche la sua panoramica dall’alto appare come la tavolozza di un pittore disordinato che ha lasciato pennellate su e giù per i bordi, mescolando tutti i colori. Ed è proprio lì che emerge la sua unicità, i suoi mille volti e i suoi mille colori.
E se Napoli fosse così proprio perché figlia di una donna altrettanto unica come Partenope? Cosa si nasconde davvero dietro questa figura così difficile da descrivere?
Nella prima versione del mito, Partenope viene raffigurata come una sirena che con il suo magnetismo aveva tentato di ammaliare l’acuto Ulisse, fallendo miseramente. Perché sarà proprio Partenope a restare vittima dello stratagemma di Ulisse di farsi legare all’albero maestro, per non perdere il controllo, abbandonandosi ad un amore fatale. La giovane sirena, invece, non riesce a sfuggire al pathos di quell’incontro, consapevole che l’avrebbe condotta alla morte. E così, il suo corpo privo di vita cade con la testa sulla collina di Capodimonte e la sua coda si posa su quella di Posillipo, dando così alla luce la città di Napoli. Una storia tragica questa che Omero narra nell’Odissea, in cui Partenope viene descritta – in conformità con il significato greco del suo nome, “vergine”- come una fanciulla debole, in balia dei sentimenti e vittima di un inganno maschile. Tutto in linea con il prototipo della donna che non controlla la sua emotività e dell’uomo che, anche di fronte all’amore, non abbandona la sua razionalità. Una visione maschilista nata dalla penna, per quanto eccelsa, di un uomo.
Sempre nel panorama mitologico greco, si inserisce un’altra versione del mito che pare però sia stata scritta nel XIX secolo. Non mi è stato possibile approfondire le ricerche sul suo autore, che sembra essere sconosciuto. Ad ogni modo, in questo mito Partenope conserva le sembianze di una sirena, e resta stavolta intrappolata in un triangolo amoroso.
La giovane, come ogni giorno, stava trascorrendo il suo tempo nel golfo di Napoli, quando si imbatte nel centauro Vesuvio. La scena stuzzica la fantasia di Eros, che non perde tempo a scoccare la sua freccia, rendendoli schiavi dell’amore. I due vivono dei bellissimi momenti insieme: erano giovani, spensierati e follemente innamorati. Fino a quando Zeus, bramando a sua volta Partenope, non decide di distruggere quella felicità. Separa i due amanti trasformando Vesuvio in un vulcano, così che la sirena, creatura marina, potesse guardarlo solo da lontano senza mai toccarlo. Il dolore della separazione strazia il cuore di Partenope che, non potendolo più sopportare, decide di togliersi la vita. Il suo corpo viene trascinato dalla corrente, sino alle coste dell’isolotto di Megaride, assumendo la forma della città di Napoli.
Un’altra tragedia in cui Partenope riveste il ruolo della fragile vittima. Una figura femminile passiva, all’amore, agli uomini, alla morte: tutti hanno la meglio su di lei, intrecciando i fili del suo destino. Non è la vera protagonista della sua storia, perché non fa altro che essere succube dei suoi sentimenti. È in balia di eventi e scelte di altri, di uomini.
È stata la penna di Matilde Serao che, agni inizi del ‘900, ha ridato dignità a questa figura. Nella sua versione del mito di fondazione della città, la scrittrice napoletana, immagina una storia ben diversa che meglio si sposa anche con i veri accadimenti storici della nascita di Napoli.
In questa versione, Partenope non è più un’ammaliante sirena, ma una giovane ragazza greca. L’amore è lo sfondo su cui si sviluppa anche questa trama, perché la vergine è sempre innamorata, questa volta dell’eroe ateniese Cimone. Ad ostacolare la loro unione è il padre di Partenope, il quale ha già promesso in sposa sua figlia ad un altro.
Ma la Partenope della Serao non è un personaggio passivo che perde la lucidità in nome dell’amore. Lei è innamorata, sì, di Cimone, ma insieme a lui decide di disobbedire a quell’imposizione paterna: i due giovani lasciano la Grecia per approdare nel golfo di Napoli. La loro storia è quella di un amore a lieto fine, senza inutili spargimenti di sangue. Vivono una vita lunga e, grazie ai loro dodici figli, saranno i capostipiti del popolo napoletano. Tutti figli della stessa madre.
Una donna che ha lottato per il suo amore, che ne ha riconosciuto il valore tanto da abbandonare la sua terra e la sua famiglia. Lo ha fatto conscia di non essere sola in quel sentimento, sicura di poter costruire qualcosa di duraturo con quell’uomo. L’unica versione del mito in cui non viene tradita, ingannata o trova la morte, ma in cui, soprattutto, non è solo spettatrice degli eventi del fato, ma sceglie coraggiosamente la sua strada.
Alle varie versioni del mito, si aggiunge la rivisitazione del regista napoletano Paolo Sorrentino. Uscita lo scorso ottobre nelle sale cinematografiche, questa pellicola cerca di rappresentare le donne napoletane attraverso la storia di una Partenope calata nella nostra contemporaneità.
La Parthenope di Sorrentino è una ragazza dalla bellezza mozzafiato, nata nelle acque del golfo di Napoli e abituata sin da giovanissima a ricevere molte attenzioni maschili, tanto da aver imparato ad utilizzare “sempre frasi ad effetto” per tenergli testa. Sì, perché questa Partenope è una donna estremamente curiosa ed intelligente che, armata di un’ironia tagliente, sfugge alla brama di possesso degli uomini incontrati nel suo cammino. Da adulta, perseguirà la carriera accademica diventando una docente universitaria di Antropologia, apprezzata e stimata da tutti. Ma sarà sola, senza un uomo a identificarla, e lontana da casa, ormai da anni, in uno dei punti più a nord della penisola: Trieste.
Forse Napoli le ricordava troppo i suoi traumi adolescenziali, come il suicidio del fratello. Le sue fragilità si mostrano proprio in occasione di quel tragico evento, che tuttavia non le impedirà di proseguire la sua vita alla ricerca dell’amore. Emblematica, in tal senso, è la scena finale in cui Partenope, riflettendo tra sé e sé, esclama:
“Sono stata viva e sola. A cosa stavo pensando? Che l’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento. O forse non è così?!”
Ritornando dunque alla domanda che ci siamo posti all’inizio, Chi è Partenope, forse ora possediamo qualche strumento in più per provare a rispondere.
Partenope è Amore, in tutte le sue sfaccettature (puro, malato, passionale, irrazionale, familiare, materno, fatale). Un amore che consuma e che riscalda, travolgendo tutto: mente, cuore e anima. Quello stesso sentimento che si legge negli occhi dei partenopei.
Si può anche affermare con certezza che Partenope sia dotata di una bellezza ammaliante. Lo suggerisce sicuramente la sua antica affiliazione con l’archetipo della sirena, che seduce i marinai, stregandoli con la sua bellezza e il suo canto. La stessa musica e la stessa bellezza che strega i passanti per le vie della città. Napoli, infatti, viene spesso definita caotica e chiassosa; un luogo comune è quello che tutto questo frastuono i napoletani lo portino ovunque vadano. Ma questo avviene perché tutto a Napoli è musica: dalla lingua che parlano gli abitanti, alle canzoni che gli artisti suonano e cantano nelle vie cittadine; e come dimenticare che quello di San Pietro a Majella è il primo conservatorio al mondo. Napoli è musica, così come la sirena Partenope, con il suo canto e il suo fascino. E se non fai attenzione, quel canto ti rapisce, riempiendoti il cuore di una malinconia che solo l’amore di Partenope può colmare. “Vedi Napoli e poi muori” è, d’altronde, la celebre frase formulata da Goethe che sintetizza a pieno la nostalgia che avverte chi lascia la città.
Così, anche il canto di Partenope può dirsi pericoloso. E in effetti questo è l’aspetto della città e del suo popolo che molti temono e criticano: l’esistenza di una “Napoli sotterranea” (oltre quella archeologica). La Camorra è effettivamente l’unica realtà davanti alla quale Parthenope distoglie lo sguardo; un gesto simbolicamente omertoso, rappresentato nella scena del film in cui la giovane assiste all’unione di due grandi famiglie mafiose. Questo sottobosco, fatto di criminalità e violenza ha, macchiato indissolubilmente la reputazione cittadina, generando spesso anche razzismo nei confronti del suo popolo.
Ma Napoli accoglie tutti lo stesso, anche chi non la apprezza, perché il vero tesoro dei napoletani è la loro ironia. Quell’atteggiamento di chi, anche quando subisce ingiustizie o vive profondi dolori, sorride alla vita prendendosi gioco di tutto, anche della morte. Un esempio calzante di tale approccio ci viene offerto dalla realtà calcistica: i tifosi napoletani si sono appropriati dei cori che da settentrione inneggiano all’eruzione del Vesuvio, come a voler scongiurare la morte e contemporaneamente prendersi beffa degli insulti, dimostrando grande cazzimma. È così che i napoletani guardano alla vita poiché vivono da sempre una realtà precaria. Hanno subito ogni genere di invasione e dominazione senza mai chinare il capo ad alcun padrone, anzi, scacciandoli a mano a mano. Sì, perché il napoletano non ha paura della morte, la vede ogni giorno che incombe sulla città. La precarietà del vivere vicino ad un vulcano quiescente ha forgiato la capacità di resilienza di questo popolo. Una qualità che riscontriamo anche nella Partenope della Serao e in quella di Sorrentino, che descrivono questa donna come coraggiosa di fronte alle avversità della vita.
Volendo accogliere tutte le qualità descritte finora, emerge il profilo di Partenope come di una donna poliedrica. È capace di ammaliare chi la guarda con il suo fascino, rapendo il cuore di chi ascolta il suo canto. Vive con coraggio l’amore, lottando per ciò che il suo cuore desidera e prendendosi cura di chi ha la fortuna di essere amato da lei. Partenope è perciò una madre accogliente e premurosa, è casa per i suoi figli. Non ha paura della morte, anche se incombe costantemente su di lei; anzi, la prende in giro, pur rispettandola. L’ironia è la più grande arma a sua disposizione che le ha permesso di trovare la forza di affrontare qualsiasi situazione. Ma soprattutto, Partenope, o Napoli che dir si voglia, è da sempre orgogliosa di essere così com’è, pregi e difetti, perché lei non ha mai chinato il capo davanti a nessuno. E mai lo farà.